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11 settembre
Le testimonianze di due intellettuali
di Salvatore D’Amico

Non si dimentica facilmente la data dell’11 settembre, perché la si considera come la più infausta della storia di tutti i tempi, a causa dell’ attentato terroristico alle Twin Towers e al Pentagono che ha seminato morti e distruzione, tale attentato va ricordato, non solo per il numero dei morti appartenenti all’Umanità intera che, senza forse, non conosceremo mai, paragonabile solo ad un bombardamento aereo di una intera città, ma per aver colpito una collettività inerme, senza che abbia avuto la possibilità di difendersi in alcun modo, quindi un atto di ignobile vigliaccheria. In quella data due nostri connazionali, una scrittrice (Oriana Fallaci) ed un poeta (Joseph Tusiani), testimoni oculari dell’orribile tragedia, così la descrivono:

Oriana Fallaci nel testo " La rabbia e l’orgoglio" scrive: "…Ero a casa, la mia casa è nel centro di Manhattan, e alle nove in punto ho avuto la sensazione d’un pericolo che forse non mi avrebbe toccato ma che certo mi riguardava. La sensazione che si prova alla guerra, anzi in combattimento, quando con ogni poro della tua pelle senti la pallottola o il razzo che arriva, e rizzi gli orecchi e gridi a chi ti sta accanto: "Down! Get down! Giù! Buttati giù!". L’ho respinta. Non ero mica in Vietnam, non ero mica in una delle tante fottutissime guerre che sin dalla Seconda Guerra Mondiale hanno seviziato la mia vita! Ero a New York , perbacco, in un meraviglioso mattino di settembre, anno 2001. Ma la sensazione ha continuato a possedermi, inspiegabile, e allora ho fatto ciò che al mattino non faccio mai. Ho acceso la Tv. Bè, l’audio non funzionava. Lo schermo, sì. E su ogni canale, qui di canali ve ne sono quasi cento, vedevi una torre del World Trade Center che bruciava come un gigantesco fiammifero. Un corto circuito? Un piccolo aereo sbandato? Oppure un atto di terrorismo mirato? Quasi paralizzata son rimasta a fissarla e mentre la fissavo, mentre mi ponevo quelle tre domande, sullo schermo è apparso un aereo. Bianco, grosso. Un aereo di linea. Volava bassissimo. Volando bassissimo si dirigeva verso la seconda torre come un bombardiere che punta sull’obiettivo, si getta sull’obiettivo. Sicchè ho capito. Ho capito anche perché nello stesso momento l’audio è tornato e ha trasmesso un coro di urla selvagge. Ripetute, selvagge. " God! Oh, God! Oh, God God God! Gooooooood! Dio! Oddio! Oddio! Dio, Dio, Diooooooo!" e l’aereo s’è infilato nella seconda torre come un coltello che si infila dentro un panetto di burro. Erano le 9 e un quarto ora. E non chiedermi che cosa ho provato durante quei quindici minuti. Non lo so, non lo ricordo. Ero un pezzo di ghiaccio . anche il mio cervello era ghiaccio. Non ricordo nemmeno se certe cose le ho viste sulla prima torre o sulla seconda. La gente che per non morire bruciata viva si buttava dalle finestre degli ottantesimi o novantesimi piani, ad esempio. Rompevano i vetri delle finestre, le scavalcavano, si buttavano giù come ci si butta da un aereo avendo addosso il paracadute, venivano giù così lentamente. Agitando le gambe e le braccia, nuotando nell’aria. Sì, sembravano nuotare nell’aria. E non arrivavano mai. Verso i trentesimi piani, però, acceleravano. Si mettevano a gesticolar disperati, suppongo pentiti, quasi gridassero help-aiuto-help. E magari lo gridavano davvero. Infine cadevano a sasso e paf! Sai, io credevo d’aver visto tutto alle guerre. Dalle guerre mi ritenevo vaccinata, e in sostanza lo sono. Niente mi sorprende più. Neanche quando mi arrabbio, neanche quando mi sdegno. Però alle guerre io ho sempre visto la gente che muore ammazzata. Non l’ho mai vista la gente che muore ammazzandosi cioè buttandosi senza paracadute dalle finestre di un ottantesimo o novantesimo o centesimo piano. Alle guerre, inoltre, ho sempre visto roba che scoppia. Che esplode a ventaglio. E ho sempre udito un gran fracasso. Quelle due torri, invece, non sono esplose. La prima è implosa, ha inghiottito se stessa. La seconda s’è fusa, s’è sciolta. Per il calore s’è sciolta proprio come un panetto di burro messo sul fuoco. E tutto è avvenuto, o m’è parso in un silenzio di tomba…."

Joseph Tusiani in due liriche esprime il suo sentimento di religiosa costernazione per quanto la vigliaccheria umana ha commesso nei confronti dell’Umanità:

11 Settembre 2001

Nelle torri Gemelle di questa terra che amo,
un giorno ordinario che svolgeva la trama
di giammai ordinari fili di vita,
un giorno come gli altri con una gran folla
di gente su e giù da piano a piano,
dappertutto odore di caffè e telefoni squillanti,
commessi veloci nel consegnare
i messaggi per il nuovo pulsare del giorno,
clienti bramosi di affari ambiti,
nuovi visitatori da terre vicine e lontane
ansiosi di arrivare al Balcone Belvedere:
di lì vedranno i fiumi e i ponti
e l’isola di Manhattan nel suo splendore
e – guarda – li, nell’Oceano Atlantico,
la Statua della Libertà, così piccola,
eppure così maestosa con la sua fiaccola accesa
se la vedi dal basso. Un ordinario
giorno come altri sul calendario,
forse appena più bello e radioso
per la luce solare profusa sulla sua durata
dalla Dea Estate che millanta tutt’intorno
i suoi ultimi dieci giorni limpidi e lussuosi.
Ma cosa accadde poi all’improvviso? Quale
Nuovo imprevedibile evento divenne la fine
Di ogni nostra conoscenza? Io so soltanto
Quel che ho visto e udito: un orrido schianto
Come un terremoto o un precipitar d’aereo.
Un silenzio inquietante scandisce l’eterno,
o è solo un attimo fuggente? Subito
un crollar di vetri e acciaio e pietra e la risposta
e un avvolgente globo di fiamma sibilante.
Sotto travi contorte giaccion uomini sepolti,
altri son fiaccole ardenti che cadono presto
l’un sull’altro in cenere. Tutto
è desolazione, tutto è violenza di fuoco
che scende nei piani più profondi per risalire
invincibile fino alla cima della Torre.
Quale disperazione fa saltar la gente
dall’ottantesimo o novantesimo piano giù a terra?
Lugubremente dondolano in aria
affondando inerti – alcuni tenendosi per mano-
giù nella morte. E’ un’asfissia improvvisa,
una così atroce certezza di fine senza scampo
da consentire a un barlume di speranza
di prestare ali per un tonfo incerto?
Dio, hai inventato la morte per punirci
ma deve un uomo morire due volte
se due volte egli spera?
Sta lì in piedi la seconda Torre ignara
sta lì l’antenna salda nel vento.
Qualcuno mi salvi da un secondo inferno
di nubi di fumo, di stanze e uffici
subito avvolti dalle fiamme, di brandelli di carta
mulinellanti in aria come fiocchi di neve,
e, soprattutto, di gente gente gente
che non sa dove scappare, se salire
le interminabili scale o, spinti dalla disperazione,
scendere giù giù verso la vita lontana.
Dieci minuti, dieci distruzioni del mondo
finchè non c’è più mondo se non avanzi d’esso
indistinti nel roteare di un caos lontano.
Dio, Altissimo Signore dell’umanità,
io non ti chiederò che cosa ha causato questo, o perché
hai permesso che tanto dolore avvenisse.
Ma come oso pensare di chiedere un perché
quando madri pregano per la salvezza dei figli,
spose frenetiche cercano notizie dei mariti
e bimbi sorridono, ignari del fato?
O l’urlare improvviso di un vento confuso!
Polvere di Manhattan! Rovine fumiganti!
O memoria di guerre eterne combattute
su questo pianeta sin dall’alba del tempo!
No, oggi non verserò lacrime vane.
In questo cimitero sconfinato lasciatemi in ginocchio,
a pregare per la pace nel cuore dell’uomo

Joseph Tusiani
20 Ottobre 2001

(Traduzione dall’inglese di Angelo Di Summa)

 

LE TORRI GEMELLE

Ahi, Torri Gemelle, ieri simbolo del nostro successo
e accesso degli uomini agli astri,
ammasso funesto di cenere fumante ora siete.
Tutto quello che ho fatto come voi è andato in rovina.
Come voi, in un lampo abbattute, sembra finita la mia vita.
Comprendo alfine quel che da fanciullo mi veniva insegnato:
non sono eterne le mura e ogni cosa è destinata a perire.
Del popolo certa è la voce, come ultimo noto lamento;
voi, Torri Gemelle, di nuovo e ancora più splendide
da così immane deserto le vostre punte innalzerete
e io dopo la morte godrò di una seconda vita.
Ma intanto, ridotte a nulla, qui scorgo le superbe
Antiche moli e me stesso al suolo giacente.

25 Ottobre 2001 - Joseph Tusiani

(Traduzione dal latino di Raffaele Cera)

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